Ritorno dopo un po' di tempo per lasciarvi le mie impressioni su un libro molto intenso, la cui lettura è imprenscindibile per chi ama interrogarsi e riflettere su sé stesso e il mondo.
RECENSIONE
PATRIA
Fernando Aramburu
Trad. Bruno Arpaia
Guanda, 2017
TRAMA: Due famiglie legate a doppio filo, quelle di Joxian e del Txato,
cresciuti entrambi nello stesso paesino alle porte di San Sebastián,
vicini di casa, inseparabili nelle serate all’osteria e nelle domeniche
in bicicletta. E anche le loro mogli, Miren e Bittori, erano legate da
una solida amicizia, così come i loro figli, compagni di giochi e di
studi tra gli anni Settanta e Ottanta. Ma poi un evento tragico ha
scavato un cratere nelle loro vite, spezzate per sempre in un prima e un
dopo: il Txato, con la sua impresa di trasporti, è stato preso di mira
dall’eta, e dopo una serie di messaggi intimidatori a cui ha
testardamente rifiutato di piegarsi, è caduto vittima di un attentato...
Bittori se n’è andata, non riuscendo più a vivere nel posto in cui le
hanno ammazzato il marito, il posto in cui la sua presenza non è più
gradita, perché le vittime danno fastidio. Anche a quelli che un tempo
si proclamavano amici. Anche a quei vicini di casa che sono forse i
genitori, il fratello, la sorella di un assassino. Passano gli anni, ma
Bittori non rinuncia a pretendere la verità e a farsi chiedere perdono, a
cercare la via verso una riconciliazione necessaria non solo per lei,
ma per tutte le persone coinvolte.
Con la forza della letteratura, Fernando Aramburu ha saputo raccontare una comunità lacerata, e allo stesso tempo scrivere una storia di gente comune, di affetti, di amicizie, di sentimenti feriti: un romanzo da accostare ai grandi modelli narrativi che hanno fatto dell’universo famiglia il fulcro morale, il centro vitale della loro trama.
Con la forza della letteratura, Fernando Aramburu ha saputo raccontare una comunità lacerata, e allo stesso tempo scrivere una storia di gente comune, di affetti, di amicizie, di sentimenti feriti: un romanzo da accostare ai grandi modelli narrativi che hanno fatto dell’universo famiglia il fulcro morale, il centro vitale della loro trama.
Così mi ha detto. Di non andare in paese per non ostacolare il processo di pace. Lo vedi, le vittime danno fastidio. Ci vogliono spingere con la scopa sotto il tappeto. Non dobbiamo farci vedere e, se scompariamo dalla vita pubblica e loro riescono a tirare fuori dal carcere i detenuti, be', questa è la pace e tutti contenti, qui non è successo niente.
Tanti anni fa mio marito e io facemmo un viaggio, e ci trovammo a condividere uno spazio ristretto (le cabine di una barca) con un ristretto gruppo di turisti europei: oltre a noi c'era un'altra coppia italiana, una coppia di ragazzi francesi, una giovane inglese, e sette persone di nazionalità spagnola: una coppia basca e una famiglia catalana. Dopo qualche giorno di convivenza, chiacchere e racconti, il ragazzo francese fece una proposta: perché non organizzare, al successivo scalo della barca, una bella partita di pallavolo: Spagna contro resto d'Europa? La famiglia di Barcellona si irrigidì subito, e il ragazzo basco scambiò uno sguardo con la sua compagna e poi sibilò: allora giocate solo voi, perché qui non ci sono spagnoli.
Leggere questo straordinario libro di Aramburu mi ha riportato alla memoria questo episodio, che all'epoca trovai agghiacciante e che ancora adesso mi mette i brividi. E' qualcosa difficile da capire: sicuramente io non riesco a comprendere come si possa sentire così forte l'appartenenza a un gruppo, a una cultura, a una tradizione, da rifiutare altre definizioni, da erigere muri, da arrivare a odiare l'altro solo perché ritenuto diverso da sé. Per me patria, terra, nazione, sono concetti labili e inconsistenti, buoni a malapena per tifare la nazionale di rugby (*). Mentre per i protagonisti di "Patria", magnificamente delineati dall'autore, queste parole, questi concetti, diventano cardine e chiave di interpretazione della loro esistenza. Per difenderla e addirittura fare del male in suo nome; per essere ciechi di fronte all'evidenza, decidendo lucidamente di stare dalla parte della propria gente, anche quando sbaglia; per riconoscere con orrore che non basta essere delle brave persone per essere protette dal male, e vedere la propria vita distrutta senza comprenderne il motivo.
La famiglia. Gli ideali. L'amore materno che può arrivare a essere cieco e ottuso. L'amicizia che resiste al tempo, quella che dal tempo viene sgretolata. I diversi modi di reagire al dolore. L'incapacità di riconoscere l'altro, di mettersi nei suoi panni, di comprenderne le ragioni. L'empatia, o la mancanza di essa. Il rifiuto di farsi domande, di chiedersi se quello in cui si crede (in cui ci hanno insegnato a credere) sia davvero la cosa giusta, perché farsi queste domande significherebbe mettere in gioco troppo di noi. Temi grandi, profondi, scrittura potente, personaggi meravigliosi. E su tutto, continue, le domande: da che parte si deve stare? Si deve davvero scegliere? E' sempre giustificato quello che si fa per una causa superiore? E' sempre doveroso chiedere perdono? E' sempre giusto perdonare?
La sua deliberata solitudine, quella di un uomo sempre più stanco. E altrettanto diffidente. I suoi rimuginii, quelli di una coscienza in cui a poco a poco avevano smesso di risuonare slogan, argomenti, tutti quei rottami verbali/sentimentali con i quali per lunghi anni aveva oscurato la propria verità intima. E qual era questa verità? Quale dev'essere? Che aveva fatto del male e aveva ucciso. Per cosa? E la risposta lo riempiva di amarezza: per niente.
Buone letture,
Eva
(*) Per spiegarvi meglio come la penso: per dirla con Patrick O'Brian, l'autore dei romanzi marinareschi sulle avventure di Jack Aubrey, per bocca del medico anarchico Stephen Maturin: patriottismo significa pensare che la propria patria abbia sempre ragione, il che è stupido; oppure stare dalla parte della propria patria anche quando si sa che ha torto, il che è decisamente infame.